MIND SHAPES
Pablo Compagnucci
Flaminio Gualdoni
Pablo Compagnucci vive la condizione odierna dell’immagine come una sorta di introverso barocco contemporaneo, i cui segni si affollano e stratificano sino a saturare la visione, facendola insieme schematica ed eccessiva.Non gli importa, beninteso, la pura intelligenza dell’effetto, e l’aura pop – o meglio, postpop – delle forme che egli serra nel campo di lettura non è che uno dei molti umori critici della sua rimessa in questione della sostanza della visione. In realtà, la pienezza sensoriale che nasce da queste stratificazioni visive non mira al compiacimento ma all’innesco di un’esperienza eminentemente intellettuale, in cui il fasto ottico ha per contrappeso una sorta di furore melanconico, una dimensione meditativa, inquieta, verrebbe da dire ansiosa.Compagnucci vive nel mondo scegliendo di accettare l’assedio delle immagini, il loro imporre un’evidenza tanto più forte quanto più problematica sul piano del senso. Alcuni frammenti dell’esperienza mondana si impongono, lavorano nella memoria e nell’immaginario dell’artista sino ad assumere una responsabilità formale autonoma, non necessariamente relata con la loro significazione iniziale, oppure ridotta a mero alito, a suggestione indiretta.
Tali schegge galleggiano nel crogiuolo dell’imagerie di Compagnucci, entrano in collisione con altre, di segno e origine radicalmente differenti: ma tutte chiedono uno spazio, un luogo. Il processo pittorico dell’artista è complesso ed elaborante, a dispetto della flagranza fastosa degli esiti cui perviene. Egli infatti, aveva ben osservato Emilio Tadini, mira a operare una “ricostruzione spettacolare della vitalità che unisce fra loro anche le cose, che le costituisce – quasi magicamente – in un organismo”. L’organismo di cui dice Tadini è quello dell’immagine pittorica in se stessa, capace di metabolizzare l’eterogeneità delle forme del mondo in diversa unità, facendo del proprio stesso viaggio verso il compimento un corso ad alta concentrazione simbolica e insieme espressiva.L’ansia giovanile di smembrare una lingua visiva e restituirla in una sorta di effusione diretta e senza mediazioni stringenti di codice; l’astratto furore, di cui testimoniava un tempo Alessandro Riva, di “poter dire tutto in una tela”: questa la prospettiva iniziale di Compagnucci. Ma egli non si è acquattato dietro questioni di stile o di antistilismo postmodern – che è in fondo la stessa cosa – e ha cercato piuttosto nelle radici stesse della forma pittorica la ragione interna di una diversa visione unitaria.
Molti ingredienti intellettuali hanno concorso al percorso elaborante dell’artista. La capacità delle iconografie di risimbolizzarsi nel processo di decostentualizzazione e ricontestualizzazione. L’evidenza asciutta e schematica della tradizione pop, non importa se si tratti di prelievi dal mondo della decorazione o dal fumetto, dalla segnaletica o dalla mitografia infantile. La monumentalità implicita nella tradizione grande del muralismo d’un tempo e la plenitudine semplificata dell’odierno. Questi gli ingredienti: ma decisivo è stato per Compagnucci l’affinare una modalità precisata di costruzione dell’immagine. Essa è perfettamente bidimensionale, nel senso del retaggio matissiano della tarsia e della perdita d’ogni profondità illusionistica, e insieme della sottrazione d’ogni corporeità in virtù di un à plat radicale nei colori, sempre al limite del sovratono iperdecorativo. Allo stesso tempo è profondissima, perché l’artista lascia in vista il sovrapporsi netto e serrato di piani visivi su piani visivi, i cui punti di incastro ed equilibrio sono gli snodi strutturali stessi dell’immagine. Tutto ciò rende protagonista il colore, le cui campiture si dispongono entro zone svarianti dall’asciuttezza dei brani geometrici elementari ai turgori degli ampi andamenti curvilinei biomorfi o arabescanti, e si organizzano in un gioco sempre pericolante – ma in realtà padroneggiato perfettamente – di collisioni e congruenze, d’intonazioni e dissonanze. Dire che a Compagnucci non importa più di tanto di trovar casa presso qualcuno dei plurimi compounds dell’odierna ufficialità chic è fatto ovvio. Il suo è davvero un singolarissimo viaggio entro l’iconografia mondana e alla ricerca di un figurare pittorico che abbia ancora senso per lo sguardo. Un itinerario che conosce già la propria piena maturità, ma che si annuncia ricco di intensi svolgimenti possibili, figure tutte della sua lucida coscienza della pittura.
Pablo Compagnucci
Flaminio Gualdoni
Pablo Compagnucci vive la condizione odierna dell’immagine come una sorta di introverso barocco contemporaneo, i cui segni si affollano e stratificano sino a saturare la visione, facendola insieme schematica ed eccessiva.Non gli importa, beninteso, la pura intelligenza dell’effetto, e l’aura pop – o meglio, postpop – delle forme che egli serra nel campo di lettura non è che uno dei molti umori critici della sua rimessa in questione della sostanza della visione. In realtà, la pienezza sensoriale che nasce da queste stratificazioni visive non mira al compiacimento ma all’innesco di un’esperienza eminentemente intellettuale, in cui il fasto ottico ha per contrappeso una sorta di furore melanconico, una dimensione meditativa, inquieta, verrebbe da dire ansiosa.Compagnucci vive nel mondo scegliendo di accettare l’assedio delle immagini, il loro imporre un’evidenza tanto più forte quanto più problematica sul piano del senso. Alcuni frammenti dell’esperienza mondana si impongono, lavorano nella memoria e nell’immaginario dell’artista sino ad assumere una responsabilità formale autonoma, non necessariamente relata con la loro significazione iniziale, oppure ridotta a mero alito, a suggestione indiretta.
Tali schegge galleggiano nel crogiuolo dell’imagerie di Compagnucci, entrano in collisione con altre, di segno e origine radicalmente differenti: ma tutte chiedono uno spazio, un luogo. Il processo pittorico dell’artista è complesso ed elaborante, a dispetto della flagranza fastosa degli esiti cui perviene. Egli infatti, aveva ben osservato Emilio Tadini, mira a operare una “ricostruzione spettacolare della vitalità che unisce fra loro anche le cose, che le costituisce – quasi magicamente – in un organismo”. L’organismo di cui dice Tadini è quello dell’immagine pittorica in se stessa, capace di metabolizzare l’eterogeneità delle forme del mondo in diversa unità, facendo del proprio stesso viaggio verso il compimento un corso ad alta concentrazione simbolica e insieme espressiva.L’ansia giovanile di smembrare una lingua visiva e restituirla in una sorta di effusione diretta e senza mediazioni stringenti di codice; l’astratto furore, di cui testimoniava un tempo Alessandro Riva, di “poter dire tutto in una tela”: questa la prospettiva iniziale di Compagnucci. Ma egli non si è acquattato dietro questioni di stile o di antistilismo postmodern – che è in fondo la stessa cosa – e ha cercato piuttosto nelle radici stesse della forma pittorica la ragione interna di una diversa visione unitaria.
Molti ingredienti intellettuali hanno concorso al percorso elaborante dell’artista. La capacità delle iconografie di risimbolizzarsi nel processo di decostentualizzazione e ricontestualizzazione. L’evidenza asciutta e schematica della tradizione pop, non importa se si tratti di prelievi dal mondo della decorazione o dal fumetto, dalla segnaletica o dalla mitografia infantile. La monumentalità implicita nella tradizione grande del muralismo d’un tempo e la plenitudine semplificata dell’odierno. Questi gli ingredienti: ma decisivo è stato per Compagnucci l’affinare una modalità precisata di costruzione dell’immagine. Essa è perfettamente bidimensionale, nel senso del retaggio matissiano della tarsia e della perdita d’ogni profondità illusionistica, e insieme della sottrazione d’ogni corporeità in virtù di un à plat radicale nei colori, sempre al limite del sovratono iperdecorativo. Allo stesso tempo è profondissima, perché l’artista lascia in vista il sovrapporsi netto e serrato di piani visivi su piani visivi, i cui punti di incastro ed equilibrio sono gli snodi strutturali stessi dell’immagine. Tutto ciò rende protagonista il colore, le cui campiture si dispongono entro zone svarianti dall’asciuttezza dei brani geometrici elementari ai turgori degli ampi andamenti curvilinei biomorfi o arabescanti, e si organizzano in un gioco sempre pericolante – ma in realtà padroneggiato perfettamente – di collisioni e congruenze, d’intonazioni e dissonanze. Dire che a Compagnucci non importa più di tanto di trovar casa presso qualcuno dei plurimi compounds dell’odierna ufficialità chic è fatto ovvio. Il suo è davvero un singolarissimo viaggio entro l’iconografia mondana e alla ricerca di un figurare pittorico che abbia ancora senso per lo sguardo. Un itinerario che conosce già la propria piena maturità, ma che si annuncia ricco di intensi svolgimenti possibili, figure tutte della sua lucida coscienza della pittura.