mind blowing garden sabrina piscalia
I collage pittorici di Pablo Compagnucci sono una sinfonia di colori ed immagini sapientemente orchestrati, origine di un flusso di energia incontenibile che sembra scorrere davanti ai nostri occhi. Lo sguardo non si posa sugli elementi compositivi, ne segue il ritmo, trasportato in una danza seducente, in un carosello vertiginoso. Solo alcune immagini frammentarie emergono da questo turbinio, come brandelli di memoria dal flusso della vita. Evocazioni, fantasmi, ricordi, simboli potenti ed ambigui accostati senza soluzione di continuità, come in un cadavre exquis che svela molto più di quanto racconti. Ed effettivamente i quadri di Compagnucci si staccano completamente dall’incombenza della narrazione, dall’aneddoto. L’opera stessa si fa mimesi dell’umano, specchio universale che ci rimanda la nostra immagine come individui e come società.
E se quest’immagine risulta, ad una primo sguardo, giocosa ed ottimista, è grazie all’ambiguità profonda dei simboli, manipolati da Compagnucci con maestria.
Primo fra tutti il colore, sgargiante e saturo, steso in campiture piatte, che inevitabilmente richiama alla mente la pop art americana che, negli anni 60, face tabula rasa della cultura classica, troppo elitista, e mise in crisi il concetto di originale (un esempio per tutti la Marilyn di Warhol riprodotta in centinaia, se non migliaia, di copie) avvicinandosi così alla massa e fecendo dell’opera d’arte un prodotto di consumo. Il richiamo a questa corrente non è affatto casuale.
Compagnuci si appropria di un codice estetico ma ne dirotta il significato utilizzando tecniche di creazione opposte a quelle dellla pop art. Ciascun quadro è infatti costruito su armonie di colore che non sono mai ripetute una seconda volta. Ogni colore è poi declinato in decine di piccole sfumature, a volte quasi impercettibili, ma che contribuiscono concretamente al piacere estetico della contemplazione dell’opera. Inoltre Compagnucci utilizza quasi esclusivamente colori ad olio, banditi dalla cultura pop a beneficio degli acrilici, invenzione dell’epoca. Ancora, il principio di piacere prevale sulla rapidità di esecuzione: per ottenere campiture piatte l’olio deve essere ripassato anche una decina di volte, ma il colore acquista così un calore ed una profondità inarrivabili altrimenti.
Sfruttando un processo di creazione completamente artigianale ed estremamente laborioso Compagnucci non vuole certo contestare il valore storico ed artistico della pop art, ma vuole affermare la necessità di buttarci alle spalle la visione materialista dell’arte affermando che un’opera è molto di più che il suo corrispettivo in denaro, è molto di più di uno status simbol, l’opera è innanzi tutto un momento unico di riflessione per l’artista e per lo spettatore, un terreno potenziale di incontro e crescita.
Ed è precisamente da un incontro fortuito che Compagnucci comincia a pensare ad una serie sulle bambole. Passeggiando per Roma egli si imbatte in un laboratorio di restauro di giocattoli antichi: fantocci di altri tempi lo guardano dalla vetrina come vestigia di qualcosa che è perduto per sempre.
Sarebbe però riduttivo identificare questo qualcosa esclusivamente con l’infanzia, anche se l’associazione sembra farsi da sola. La presenza dei fiori poi, simbolo per eccellenza della caducità della vita, ci conforta nell’intraprendere questa pista. Le opere di Compagnucci sarebbero allora un ammonimento? Una Vanità? Un Memento Mori? In parte sì, è così. Ma potrebbero anche essere un monito a coltivare il bambino che è in noi, come un fiore.
La magia di questi quadri risiede proprio nella loro ambigiutà estrema. Compagnucci è un maestro nel fornirci direzioni, piste e derive possibili, senza mai limitarci nei confini di un discorso concluso. La sua opera funziona per associazioni e vive contemporaneamente dei sentimenti del suo creatore e delle proiezioni dello spettatore che è libero di far viaggiare la mente per contrade inesplorate.
Così la bambola non è solo simbolo dell’infanzia, ma anche simulacro dell’umano. Priva di vita, amputata d’anima eppure così perturbante. I suoi occhi non ci rinviano forse alla paura di essere noi stessi vuoti?
Ma le bambole sono anche una versione migliorata dell’umano. Non hanno difetti. Non invecchiano. Sono immobili nella loro perfezione. A differenza dei fiori che incarnano l’assoluta bellezza ma anche la sua fraglità. L’associazione dei due elementi potrebbe allora rappresentare un sarcastico rifermento alla paura di invecchiare, all’impossibile rincorsa dell’eterna giovinezza. O forse una triste constatazione di come gli oggetti che possediamo ci sopravviveranno.
Un’interpretazione non ne preclude mai un’altra per questo focalizzarsi troppo su questi due elementi, seppur ricchi di spunti, è ancora una volta riduttivo. Compagnucci, inserisce numerosi oggetti tra i più disparati, e non è mai per caso.
Le statue antiche, le icone religiose, le frecce direzionali, ma anche i nomi di città e le scritte che a volte fanno capolino, sembrano altrettanti punti di riferimento volti ad orientare la nostra visione dell’opera. Ma non è così. Seppur segni familiari di un universo palpabile (esse sono di fatto dei frammenti di vita vissuta, ricordi di viaggio, pezzi visti in un museo, città visitate…) essi sono lì per disorientarci ancora di più, aprendo ulteriori cammini di comprensione di noi stessi e dell’opera.
Le statue, atona memoria di un popolo, sono ineluttabilmente consumate dal tempo e, come già per i romantici, esse non sono di nessun aiuto, ci accusano silenziose, ricordandoci solo le glorie di un epoca che non fu mai né mai sarà la nostra. Anche le immagini religiose non ci confortano più, i loro occhi sono sempre coperti, esse restano mute e cieche icone alle quali ci si rivolge più per abitudine che per vera fede.
Non è quindi sbagliato ipotizzare che in queste opere si nasconda un invito a coltivare la vera fede o la nostra cultura generale, proprio come faremmo con un giardino. O a studiare il passato per evitare di commettere gli stessi errori. Ma esse potrebbero anche essere la rappresentazione del nostro potenziale giardino segreto, abitato da tutto ciò che crea la nostra identità.
Anche le frecce, che sembrano suggerire una direzione possibile, ci indicano un “senso” che è impossibile afferrare. E’ troppa la velocità, troppo seducente il movimento, il nostro sguardo continua a vagare, il nostro spirito anche. Incapace di fissarsi su un unico movente, un'unica affermazione.
Perché il movimento stesso è simbolo e chiave di lettura dell’opera. Esso imita la velocità della vita moderna, l’incapacità di focalizzarsi su una cosa, l’impossibilità di esplorarne le profondità. Ma è anche allegoria della possibilità del pensiero di muoversi vertiginosamente, di copiere associazioni inaspettate e di svelarci connessioni fino a ieri invisibili.
Soprattutto però, il movimento è invito ad avvicinarsi all’opera di questo artista che da sempre rifiuta gabbie stilistiche e concettuali, con la naturalezza di chi fa una passeggiata, lasciandosi trasportare dal flusso dei colori, come faremmo con un sentiero conosciuto. Lasciandosi catturare dalla bellezza che si sprigiona da queste opere. Perché la ricerca del Bello è di fatto una componente essenziale nel lavoro di Compagnucci che ci offre qui dei brani di pittura magistrali, momenti di puro piacere contemplativo al quale ci si abbandona senza paura. E a giusto titolo perché non ci sarà un brusco risveglio: la violenza è bandita dall’opera di questo artista. Non c’è aggressione perché non c’è affermazione univoca di una Verità assoluta. C’è invece tutta la potenza, la profondità e l’ambiguità del sogno. Ogni percorso è possibile, sta a noi seguirne le tracce.
E se quest’immagine risulta, ad una primo sguardo, giocosa ed ottimista, è grazie all’ambiguità profonda dei simboli, manipolati da Compagnucci con maestria.
Primo fra tutti il colore, sgargiante e saturo, steso in campiture piatte, che inevitabilmente richiama alla mente la pop art americana che, negli anni 60, face tabula rasa della cultura classica, troppo elitista, e mise in crisi il concetto di originale (un esempio per tutti la Marilyn di Warhol riprodotta in centinaia, se non migliaia, di copie) avvicinandosi così alla massa e fecendo dell’opera d’arte un prodotto di consumo. Il richiamo a questa corrente non è affatto casuale.
Compagnuci si appropria di un codice estetico ma ne dirotta il significato utilizzando tecniche di creazione opposte a quelle dellla pop art. Ciascun quadro è infatti costruito su armonie di colore che non sono mai ripetute una seconda volta. Ogni colore è poi declinato in decine di piccole sfumature, a volte quasi impercettibili, ma che contribuiscono concretamente al piacere estetico della contemplazione dell’opera. Inoltre Compagnucci utilizza quasi esclusivamente colori ad olio, banditi dalla cultura pop a beneficio degli acrilici, invenzione dell’epoca. Ancora, il principio di piacere prevale sulla rapidità di esecuzione: per ottenere campiture piatte l’olio deve essere ripassato anche una decina di volte, ma il colore acquista così un calore ed una profondità inarrivabili altrimenti.
Sfruttando un processo di creazione completamente artigianale ed estremamente laborioso Compagnucci non vuole certo contestare il valore storico ed artistico della pop art, ma vuole affermare la necessità di buttarci alle spalle la visione materialista dell’arte affermando che un’opera è molto di più che il suo corrispettivo in denaro, è molto di più di uno status simbol, l’opera è innanzi tutto un momento unico di riflessione per l’artista e per lo spettatore, un terreno potenziale di incontro e crescita.
Ed è precisamente da un incontro fortuito che Compagnucci comincia a pensare ad una serie sulle bambole. Passeggiando per Roma egli si imbatte in un laboratorio di restauro di giocattoli antichi: fantocci di altri tempi lo guardano dalla vetrina come vestigia di qualcosa che è perduto per sempre.
Sarebbe però riduttivo identificare questo qualcosa esclusivamente con l’infanzia, anche se l’associazione sembra farsi da sola. La presenza dei fiori poi, simbolo per eccellenza della caducità della vita, ci conforta nell’intraprendere questa pista. Le opere di Compagnucci sarebbero allora un ammonimento? Una Vanità? Un Memento Mori? In parte sì, è così. Ma potrebbero anche essere un monito a coltivare il bambino che è in noi, come un fiore.
La magia di questi quadri risiede proprio nella loro ambigiutà estrema. Compagnucci è un maestro nel fornirci direzioni, piste e derive possibili, senza mai limitarci nei confini di un discorso concluso. La sua opera funziona per associazioni e vive contemporaneamente dei sentimenti del suo creatore e delle proiezioni dello spettatore che è libero di far viaggiare la mente per contrade inesplorate.
Così la bambola non è solo simbolo dell’infanzia, ma anche simulacro dell’umano. Priva di vita, amputata d’anima eppure così perturbante. I suoi occhi non ci rinviano forse alla paura di essere noi stessi vuoti?
Ma le bambole sono anche una versione migliorata dell’umano. Non hanno difetti. Non invecchiano. Sono immobili nella loro perfezione. A differenza dei fiori che incarnano l’assoluta bellezza ma anche la sua fraglità. L’associazione dei due elementi potrebbe allora rappresentare un sarcastico rifermento alla paura di invecchiare, all’impossibile rincorsa dell’eterna giovinezza. O forse una triste constatazione di come gli oggetti che possediamo ci sopravviveranno.
Un’interpretazione non ne preclude mai un’altra per questo focalizzarsi troppo su questi due elementi, seppur ricchi di spunti, è ancora una volta riduttivo. Compagnucci, inserisce numerosi oggetti tra i più disparati, e non è mai per caso.
Le statue antiche, le icone religiose, le frecce direzionali, ma anche i nomi di città e le scritte che a volte fanno capolino, sembrano altrettanti punti di riferimento volti ad orientare la nostra visione dell’opera. Ma non è così. Seppur segni familiari di un universo palpabile (esse sono di fatto dei frammenti di vita vissuta, ricordi di viaggio, pezzi visti in un museo, città visitate…) essi sono lì per disorientarci ancora di più, aprendo ulteriori cammini di comprensione di noi stessi e dell’opera.
Le statue, atona memoria di un popolo, sono ineluttabilmente consumate dal tempo e, come già per i romantici, esse non sono di nessun aiuto, ci accusano silenziose, ricordandoci solo le glorie di un epoca che non fu mai né mai sarà la nostra. Anche le immagini religiose non ci confortano più, i loro occhi sono sempre coperti, esse restano mute e cieche icone alle quali ci si rivolge più per abitudine che per vera fede.
Non è quindi sbagliato ipotizzare che in queste opere si nasconda un invito a coltivare la vera fede o la nostra cultura generale, proprio come faremmo con un giardino. O a studiare il passato per evitare di commettere gli stessi errori. Ma esse potrebbero anche essere la rappresentazione del nostro potenziale giardino segreto, abitato da tutto ciò che crea la nostra identità.
Anche le frecce, che sembrano suggerire una direzione possibile, ci indicano un “senso” che è impossibile afferrare. E’ troppa la velocità, troppo seducente il movimento, il nostro sguardo continua a vagare, il nostro spirito anche. Incapace di fissarsi su un unico movente, un'unica affermazione.
Perché il movimento stesso è simbolo e chiave di lettura dell’opera. Esso imita la velocità della vita moderna, l’incapacità di focalizzarsi su una cosa, l’impossibilità di esplorarne le profondità. Ma è anche allegoria della possibilità del pensiero di muoversi vertiginosamente, di copiere associazioni inaspettate e di svelarci connessioni fino a ieri invisibili.
Soprattutto però, il movimento è invito ad avvicinarsi all’opera di questo artista che da sempre rifiuta gabbie stilistiche e concettuali, con la naturalezza di chi fa una passeggiata, lasciandosi trasportare dal flusso dei colori, come faremmo con un sentiero conosciuto. Lasciandosi catturare dalla bellezza che si sprigiona da queste opere. Perché la ricerca del Bello è di fatto una componente essenziale nel lavoro di Compagnucci che ci offre qui dei brani di pittura magistrali, momenti di puro piacere contemplativo al quale ci si abbandona senza paura. E a giusto titolo perché non ci sarà un brusco risveglio: la violenza è bandita dall’opera di questo artista. Non c’è aggressione perché non c’è affermazione univoca di una Verità assoluta. C’è invece tutta la potenza, la profondità e l’ambiguità del sogno. Ogni percorso è possibile, sta a noi seguirne le tracce.